Non so gli altri, ma io, come ogni altro albero, mi chiedo da tempo quale sarà il mio destino. Da quando, quasi ogni anno, il mio amico guardaboschi passa da questo lembo di bosco, a volte misurandoci con un ciuffo, a volte martellandoci con ogni sorta di strumento mai visto prima. Sentivo che stava per succedere qualcosa. Soprattutto perché era successo qualcosa di simile a mio cugino. Lo conoscete. Vi parlo del grande sorriso sulla roccia della collina. Quello che ha sorriso per la prima volta con la punta della sua corona quando il sole del mattino è spuntato da dietro il crinale e ha dato l'addio alla stella del giorno, con i suoi rami arrossati dai raggi del tramonto. Lasciate che vi racconti come è successo.
Sarà stato circa tre anni fa. Da un po' di tempo vedo alcune persone intorno al suo grembo. Si avvicinavano, lo picchiettavano leggermente con un picchio, altri con un palmo aperto. Ascoltavano con le orecchie premute contro la corteccia e lo picchiettavano ancora e ancora, continuando a guardare verso la cima, che si trovava a circa trenta metri sopra la scogliera. Non passò molto tempo prima che, un inverno, arrivassero armati di asce e scure e lo buttassero a terra. Lo ripulirono dai rami e lo trascinarono fino al carro, dove lo caricarono, lo legarono ai finimenti di un cavallo e partirono. Si dice che sia stato portato direttamente alla fabbrica di violini.
Mi succederà la stessa cosa?
Sono curioso di sapere cos'altro la vita ha in serbo per me!
In un certo senso, mi dispiacerebbe per gli amici che lascio qui.
Mi dispiaceva per il vecchio Padre Martin che, quando si avvicinava a me, si alzava su due zampe, come se volesse abbracciarmi, e affilava i suoi artigli sulla mia corteccia. Poi se ne andava brontolando al vicino cespuglio di lamponi dove si ingozzava avidamente fino a farsi venire il mal di pancia. Tornava lavato e infilava la zampa nel formicaio di formiche accanto a me, che leccava per far passare il mal di pancia.
Mi dispiaceva per i due grassi scoiattoli che, mentre sgranocchiavano con gusto i miei coni, ridevano dei loro cugini americani che non avevano, come loro, una coda così meravigliosa. Ridevano anche dei loro cugini grigi della tundra asiatica, che non avevano un tale orgoglio di pelliccia rossa o nera.
Mi mancherebbe l'elegante bucaneve vestito di nero, bianco e rosso che svegliava l'intero bosco con il suo rumore di mitragliatrice, quando si nutriva rosicchiando la nostra corteccia e ci salvava dai vermetti e dalle oche che sciamavano sotto di lui facendoci soffrire.
Mi mancherebbe la civetta che, di notte, si alza in volo incurante dai miei rami per catturare con gli artigli un povero topolino che la fame ha cacciato dalla sua tana o qualche misero uccello delle mucche.
Mi mancherà anche la lince o la lince con la sua pelliccia striata e i padiglioni auricolari screziati che, nelle notti buie, si insinuava inascoltata, come un fantasma, per cacciare qualche uccello addormentato, uno scoiattolo o un cerbiatto imprudente.
E quanti altri!
Ma d'altra parte ero felice.
Finalmente mi libererò dei vermi che avvolgevano i miei aghi. Mi libererò anche della forfora che alcuni chiamano barba d'orso e che stava seccando i miei rami. Mi libererò degli acari, delle mosche bianche e della ruggine. Sulla mia corteccia non crescerà più la cocciniglia o, come è meglio conosciuta, la iasca, che succhia la linfa e lascia profonde cicatrici.
Una mattina di primavera, quando era appena l'alba, arrivarono. Con un grande urlo, entrarono tra gli abeti, accompagnati da cavalli piccoli ma forti, abituati alla foresta. Armati di accette, asce e zappe, si misero a metterci al tappeto. Solo i più arcaici si salvarono. Dopo averci liberato dai rami, suonarono le corna. Ci fecero rotolare nel ruscello con le loro capre, poi ci trascinarono sulla strada con i cavalli.
Dove andremo a finire?
[...] Il viaggio - La destinazione [...]
[...] Destino [...]